In ricordo di Anselmo Previdi

Papà nasce a Libiola, in provincia di Mantova, nel 1921. E’ un ragazzo sveglio, maturo sin da piccolo. Si interessa di tante cose, ha una mente aperta e dimostra già una grande capacità organizzativa quando ordina i libri di scuola per i suoi compagni, in modo da avere uno sconto sui suoi, o quando costruisce una radio a galena e tutti i vicini vengono per avere notizie dei nuovi minacciosi eventi che attendono l’Italia.

Nel 1940, a 19 anni, papà viene mandato in guerra e qui si verifica la prima delle tante misteriose circostanze che poi segneranno la sua vita. Papà ha fatto tante cose perché era guidato da un forte senso cristiano degli eventi. Seguiva un’ispirazione superiore che, per noi che crediamo, lo andava modellando a sua insaputa: quella che segue è la prima volta che questo disegno si manifesta apertamente.

Prima di partire papà incontra inaspettatamente il Papa. Si trova in piazza S. Pietro con la mamma, disperata all’idea di vedere partire il figlio per un viaggio dal quale potrebbe non tornare più. La nonna piange e, proprio in quel momento, un monsignore – l’angelo custode? – passa, la nota e le chiede che cosa succede. Alle spiegazioni date con voce rotta, il monsignore si commuove e li porta in Vaticano. Sala dopo sala, papà e la nonna si trovano in un gruppetto di persone di fronte al Papa. Pio XII guarda papà e gli dice fermamente: “Tu ritornerai”.

La guerra non fa che confermare questa profezia. Papà è sottufficiale alla guida di una colonna dei camion in Albania. Molte volte la colonna viene attaccata per essere distrutta o depredata, ma papà rimane sempre illeso. Intorno a lui muoiono, anche in maniera atroce, tanti ragazzi. La vista di queste sofferenze e morti inutili segna profondamente papà e crea in lui un desiderio infinito di misericordia. Infine, un ultimo episodio conferma questa protezione del cielo.

Siamo agli ultimi atti: in Italia c’è il caos, i tedeschi sono diventati nemici, e papà e i suoi soldati, insieme con altri italiani, sono prigionieri in un campo in Albania. Questo campo è una vallata circondata da colline, e nella notte, i partigiani titini cominciano a sparare da quelle alture. E’ un gioco al massacro, perché tedeschi e italiani più in basso sono un bersaglio che non ha scampo.

Tutta la notte infuria il fuoco nemico, ma papà ha di nuovo la prova di una protezione divina. Una voce interna sembra avvisarlo continuamente del pericolo. Papà passerà la notte spostandosi in continuazione, seguendo le avvertenze di questo suggeritore, e ogni volta, esplode una bomba o cade un proiettile nel luogo che ha appena lasciato.

Il mattino seguente, dopo aver giocato a nascondino con la morte, i superstiti vengono radunati dai tedeschi per essere portati ai campi di concentramento. Ancora una volta, la misteriosa protezione di papà si mette in azione.

Dei vagoni ferroviari sui quali vengono fatti salire gli italiani, quello di papà è il solo ad avere un finestrino e proprio da quello, papà organizza la fuga dei suoi uomini mentre il treno è in corsa. All’arrivo a Trieste, più della metà è riuscita a fuggire, ma papà adesso rischia di essere fucilato per non aver sorvegliato i suoi soldati.

I suoi uomini gli consigliano di fingere un violento attacco di appendicite. Di nuovo, la provvidenza si presenta sotto forma di un medico che aiuta gli italiani in pericolo. Chiamato d’urgenza, questo dottore visita papà mollandogli di nascosto un pugno nello stomaco. All’urlo di dolore che ne segue, il medico certifica con incredibile faccia tosta che papà deve essere portato subito in ospedale. Incredibilmente i tedeschi acconsentono e, ovviamente, papà esce dall’ospedale un attimo dopo esservi stato ricoverato.

L’esperienza della guerra lo lascia profondamente segnato. Papà si sceglie un lavoro molto particolare, un lavoro che gli permetta di girare liberamente per quanto è stato costretto a star fermo prima. Diventa socio di un’azienda olandese per l’esportazione del bestiame e contribuisce a ricreare gli allevamenti italiani devastati dalla guerra. E’ un pioniere anche in questo. Sua l’idea del primo trasporto di vitelli via aerea, un evento che radunerà folle di curiosi. Qualche anno dopo incontra mamma e si sposano nel 1953.

I figli però non arrivano e mamma comincia a seguire papà in quasi tutti i suoi spostamenti all’estero. Papà infatti visita sempre nuovi paesi per espandere l’attività dell’azienda. Questa è la seconda circostanza che modella la sua vita e gli crea una passione inestinguibile per i viaggi, una sete di conoscere che lo porta a visitare i posti più impensabili.

Nel frattempo, non avendo bambini, papà - e mamma con lui - si dedica ai figli degli altri. Parte un programma di adozioni dalla Somalia tramite un amico, il giudice Angeloni che è stato magistrato lì per molto tempo e conosce bene la situazione. Bambini abbandonati, figli di operai italiani e ragazze somale, vengono forniti di passaporto italiano che gli permette di essere adottati. Partono così per l’Italia, dove trovano mamma e papà pronti ad accoglierli per qualche giorno nella loro casa, finchè non raggiungono l’istituto che li affiderà ai nuovi genitori. Così arriva in Italia quello che noi chiamiamo nostro cugino Umberto, che sarà adottato dai miei padrini di battesimo.

Nel 1960 i miei genitori si fermano a Lourdes durante uno dei viaggi di lavoro di papà. e mamma chiede alla Madonna la grazia di un bambino, promettendo di portarlo a Lourdes a ringraziare una volta cresciuto. Quello stesso anno arrivo io e l’anno dopo le mie tre sorelle. Anche in questo, papà e mamma si distinguono. Dopo sette anni di attesa, si trovano ad avere quattro figlie in un anno. Inutile dire che il viaggio a Lourdes viene trionfalmente compiuto allo scoccare dei miei 8 anni.

La nostra nascita focalizza ancora di più papà sui piccoli e gli indifesi. Ancora non lo sa, ma la sua guida divina sta per mettersi di nuovo all’opera.

Nei primissimi anni 60 papà è in India con un gruppetto di audaci allevatori italiani, venuti a conoscere le potenzialità di un paese che considera sacre le vacche, ma che non ritiene degna di essere vissuta la vita di alcuni dei suoi abitanti più bisognosi.

In albergo, papà nota un sacerdote europeo molto triste e molto preoccupato. Gli chiede cosa sia successo e come possa aiutarlo. Il sacerdote, che si scopre essere italiano, anzi veneziano quindi quasi compaesano, racconta a papà la sua disperazione. Il governo indiano sta per abbandonare quasi 300 lebbrosi in un’area paludosa, destinandoli a sicura morte. Se solo lui avesse qualche soldo per riscattarli…

Papà chiede subito a quanto ammonti questo riscatto: la cifra è risibile per l’Italia e parte subito una colletta che raccoglie ben più del necessario. Il sacerdote è entusiasta e riconoscente, e promette a papà di restare in contatto.

Nasce così un’amicizia che si tramuta nell’adozione da parte di papà di un intero orfanotrofio di varie centinaia di bambini a Mattul, nel Kerala. Il sacerdote è padre Michele Vendramin, un titanico e perseverante educatore che sarà legato alla nostra famiglia fino alla sua morte. Subito dopo, papà ha un altro incontro folgorante. Nel 1967 incontra Hermann Gmeiner, il fondatore dei villaggi SOS, e rimane colpito dall’intuizione di quest’uomo umanissimo e geniale. Avrà vari incontri con lui mentre prende sempre più piede il progetto di un villaggio SOS a Roma, che dovrebbe coronare l’esistenza dei villaggi italiani con una presenza nella capitale storica, amministrativa e religiosa del paese. All’epoca, i villaggi effettivi sono solo due.

Il progetto comprende 10 casette: vengono realizzati disegni, planimetrie, anche un plastico per dare l’idea ai benefattori di quel che sarà il futuro.

Personalmente, le mie sorelle ed io abbiamo tanti carissimi ricordi di quel periodo infervorato. Ricordo il dottor Gmeiner e il suo sorriso, mentre ci accoglieva a Caldonazzo, dove tutti gli anni si svolgeva la vacanza dei bambini dei villaggi d’Europa e del mondo.

Ricordo la baronessa Unterrichter e la villa nella quale erano ospitate le bambine, mentre i maschietti, che io invidiavo moltissimo, avevano a disposizione un campeggio di tende fantastico, e addirittura un paio di case sugli alberi, e dove i ragazzi di Vicenza invitavano quelli di New York a mangiare la polenta con le salsicce.

Ma soprattutto ricordo le mille trovate di papà per diffondere queste idee e cercare sostenitori. Tutti i suoi amici e conoscenti erano stati coinvolti e prestavano il loro aiuto a titolo gratuito, nel tentativo di abbattere i costi che all’epoca sembravano enormi. Ci diceva papà che ogni casetta sarebbe costata 10 milioni di lire, e quindi il villaggio sarebbe costato la somma stratosferica di ben 100 milioni. Come sembra lontano tutto questo adesso.

Papà cominciò a partecipare tutti gli anni alla mostra Natale Oggi, per raccogliere fondi e presentare il progetto a più gente possibile. Aveva deciso di sfruttare la sua passione di sempre, il collezionismo. Papà era un accanito collezionista. Collezionava quadri, monete, oggetti dei paesi che visitava, minerali e conchiglie.

E proprio con i minerali e le conchiglie partì il primo storico stand. Da quel momento, papà partecipò tutti gli anni, coinvolgendo la famiglia e gli amici in un tour de force per le tre settimane della Fiera.

Da quel piccolo stand cominciarono poi a ramificarsi sempre più progetti. Papà viaggiava moltissimo, e presto i suoi viaggi si trasformarono in una doppia, anzi tripla attività. Viaggiava per l’agenzia viaggi che aveva aperto nel frattempo, viaggiava per cercare materiali e oggetti da proporre nella mostra e viaggiava per incontrare di nuovo le persone che aveva conosciuto in quei paesi lontani e che gli chiedevano aiuto.

Le sue attività benefiche cominciarono a moltiplicarsi. In India, suo paese d’adozione fin dalle origini, erano moltissime le organizzazioni che sosteneva. Vorrei ricordare qui in particolare le missioni dei Salesiani a Bombay e Calcutta, guidate da un gigante dell’apostolato, padre Aurelio Maschio. Questo missionario, grande amico di madre Teresa, arrivato in India appena consacrato, aveva dedicato tutta la sua vita alle popolazioni più miserabili, in particolare ai lebbrosi.

Per tantissimi anni papà ha considerato una responsabilità e un onore poter partecipare alla distribuzione del pane – che lui stesso aveva controbuito a comprare – ai lebbrosi di Bombay, che affluivano in città alle 4 del mattino per non essere visti e scacciati come un pericoloso disturbo.

Visitava personalmente anche i loro villaggi e mangiava con loro, usando i loro piatti, ben sapendo come queste dimostrazioni di affetto e di rispetto rendessero felici questi poveri sventurati, abituati all’orrore e al disprezzo di una società che li condanna senza appello per il loro destino, imputandolo crudelmente ad un karma negativo contro il quale non si può combattere. Mentre invece sappiamo bene tutti come la lebbra, presa in tempo, possa essere felicemente risolta.

Papà tornava da questi viaggi con animo angosciato per tante sofferenze ma con la ferma risoluzione di fare di più. E i suoi beneficiati - i suoi amici - lo ricambiavano con immenso affetto. Per anni, Padre Maschio ha inviato un telegramma quasi ogni giorno, non sapendo in quale altro modo testimoniargli la sua profonda riconoscenza. Papà ne era estremamente commosso, e si considerava onorato di avere la stima e l’affetto di un simile uomo. Perché papà si riteneva solo uno strumento e si sentiva privilegiato di poter condividere quello che aveva con chi non aveva niente.

Durante uno dei suoi viaggi a Bruxelles, papà incontrò poi un funzionario della CEE di origine polacca che condivideva il suo stesso desiderio di aiutare gli altri. Di nuovo, il destino impresse un’altra svolta alla sua vita e gli consegnò il mezzo di far partire un nuovo gigantesco progetto.

Bernardo, chiamerò questo funzionario col nome italianizzato che gli dava affettuosamente papà, gli aveva spiegato che la Comunità Europea aveva a disposizione immensi depositi di scorte alimentari in surplus che potevano essere destinati a organizzazioni benefiche. Serviva però uno stretto controllo di queste scorte, una scelta oculata delle organizzazioni, un rigido protocollo burocratico da seguire alla lettera e, soprattutto, un uomo che si incaricasse di vegliare su ogni minimo passo, in modo da non far naufragare il progetto sul nascere.

Papà accettò la sfida. Negli anni successivi prese quindi forma quello che sarebbe diventato il CAM, il Centro Aiuti Mondiali. Per un periodo di almeno 20 anni, il CAM distribuì latte in polvere, fiocchi di avena, zucchero, riso, fagioli, olio di semi, cereali e farina di grano ad organizzazioni umanitarie di 19 paesi extraeuropei.

Il primo progetto prese il via in Egitto, tramite gli amici del Rotary di Heliopolis, Cairo. Papà è stato un rotariano convinto, ed ha sempre cercato di mettere in pratica i principi ispiratori di questa organizzazione coinvolgendo il suo club e altri club sparsi nel mondo in tante iniziative. Per anni, sei Rotariani del Cairo, imprenditori e industriali, hanno dedicato mezza giornata a organizzare e controllare la distribuzione giornaliera di centomila bicchieri di latte e pacchetti di biscotti agli alunni bisognosi.

Ci sono tantissime lettere, ricordi e ringraziamenti che abbiamo conservato a prova di questa incredibile macchina di aiuti, ed alcuni sono anche buffi nella loro ingenuità. Come il sacerdote del Madagascar che spiegava preoccupatissimo a papà che i bambini del suo centro andavano pazzi per il latte in polvere… però non diluito in acqua ma mangiato dentro al pane locale, trasformandolo così in un dolce. E si chiedeva se questa trasgressione poteva costituire un problema per la Comunità Europea.

Papà visitava personalmente queste organizzazioni ed era fiero di dire che la sua attività di presidente e supervisore non costava un soldo al progetto. Le sue visite non erano infatti delle escursioni a sé stanti ma erano inserite all’interno dei viaggi di lavoro che papà organizzava come tour leader. Una volta sul posto, papà approfittava per far conoscere le strutture locali anche ai partecipanti dei suoi viaggi.

Ricordo benissimo un viaggio in Terra Santa a cui ho partecipato anch’io. Andammo tutti a visitare il villaggio SOS vicino a Nazareth, dove convivevano bambini cristiani, mussulmani e ebrei, allevati con amore da mamme che li accudivano con evidente affetto. I partecipanti furono straordinariamente commossi: inutile dire che i Villaggi SOS guadagnarono molti amici quel giorno.

Papà guardava sempre oltre, e concreto come il ragazzo di campagna che era stato, cercava sempre la praticità e la funzionalità delle idee. Non si accaniva nel tentativo di coinvolgere grandi enti in ipotetici mega progetti, ma cercava di attivare le risorse locali e spingere coloro che avevano bisogno a trovare essi stessi le soluzioni, invece di attendere passivamente un aiuto esterno.

Ad esempio tornava tutto infervorato dal Brasile per un progetto che gli aveva presentato un amico missionario. Un medico e un commerciante avevano avuto una splendida idea su come aiutare i bambini della vicina favela. Si poteva costruire un filtro economico alla portata di tutti per purificare l’acqua melmosa e piena di germi. Passando attraverso una serie di piccoli dischi di terracotta porosa, l’acqua veniva filtrata e ripulita della maggior parte della sue impurità. Ricordo come questo progetto entusiasmò moltissimo papà per la sua facilità, per la possibilità di far lavorare gli artigiani locali e per la grande distribuzione che si poteva fare di un simile semplice congegno.

Nonostante la sua attività fosse rivolta a tutto il mondo, papà aveva un occhio speciale per l’Asia e in particolare per l’India e il Nepal. Con quest’ultimo piccolo stato si erano creati subito dei profondi vincoli di affetto, culminati nell’amicizia con il re Birendra e la regina. Papà organizzava spesso viaggi di imprenditori italiani per aiutare l’economia locale ed insegnare nuove tecniche ai ragazzi. A ringraziamento di questa attività incessante, papà venne nominato Console Onorario del Nepal in Italia, incarico che contribuì a creargli sicuramente non pochi grattacapi ma anche ad aiutare concretamente tanti giovani, che venivano ospitati da aziende agricole del nostro paese per imparare come sfruttare al meglio le risorse delle loro terre.

Con uno di questi in particolare siamo rimasti molto amici. Questo ragazzo ha portato in Nepal l’arte di coltivare le fragole, all’epoca sconosciute, e di cui adesso lui rifornisce alberghi e ristoranti. Il suo primo figlio è stato chiamato con un nome che inizia con la lettera dell’alfabeto scelta dall’indovino, come è tradizione locale: la lettera propizia era N ed il bimbo è stato chiamato Nirvana. Ma subito dopo, gli è stato aggiunto Anselmo, il nome di papà che questo ragazzo ha voluto ringraziare offrendogli la gioia di una nuova esistenza legata in qualche modo a lui.

E di bambini che portano il nome di papà come primo o secondo nome ormai ne conosciamo tanti. I bambini erano il centro del suo interesse, lo scopo primario delle sue attività, perché papà sapeva che educando i bambini si offre un futuro al paese che li ha generati.

Ma a volte non c’è spazio e non c’è accoglienza per i piccoli nel loro paese. Per questo, una delle ultime attività create da papà e a cui teneva moltissimo, è stata l’organizzazione delle adozioni, sia legali che a distanza, dei bambini nepalesi e dei loro vicini tibetani.

Alcuni di questi piccoli sono quindi venuti ad abitare in Italia. Papà era particolarmente contento quando le famiglie che li adottavano abitavano vicino alle montagne, perché, diceva, per i bimbi era un po’ come restare a casa loro, all’ombra della ben più maestosa catena dell’Hymalaya.

E si commuoveva sempre quando riceveva le lettere dei nuovi genitori e le foto dei bambini rinati a nuova vita, perché, diceva, “ringrazio il Signore che mi ha dato la possibilità di aiutare gli altri.”

Ecco, potrei continuare a parlare per ora e a ricordare i tanti episodi che abbiamo vissuto con lui e tramite lui. Ma preferisco chiudere con queste semplici parole di mio padre.

“Ringrazio il Signore che mi ha dato la possibilità di aiutare gli altri.”

E’ un augurio che mi faccio e che vi faccio di tutto cuore. 

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